Avevo letto qualche anno fa Sofia si veste sempre di nero di Paolo Cognetti non riuscendo a entrare in alcuna empatia con la protagonista, anzi trovandola spesso detestabile: il che non sarebbe un contro (vedi il discorso su Stoner), ma non credo proprio fosse nei progetti dell’autore stimolare questi sentimenti. Al netto di un capitolo finale calante, che non concludeva in modo efficace i discorsi aperti, avevo apprezzato molto la scrittura così fluida di Cognetti e così ho deciso di ritentare con La felicità del lupo, edito da Einaudi. Il sapore dopo l’ultima pagina, però, è agrodolce.
Silvia rise. E di cosa sa gennaio? Di cosa sapeva gennaio? Fumo di stufa. Prati secchi e gelati in attesa della neve. Il corpo nudo di una ragazza dopo una lunga solitudine. Sapeva di miracolo.
Trama de La felicità del lupo in un paragrafo – Prossimo al divorzio, il quarantenne milanese Fausto ritorna tra le amate montagne, nel piccolo villaggio di Fontana Fredda e viene assoldato come cuoco da un’altra ex-cittadina come Babette. Conosce la ventisettenne Silvia della quale si innamora: i sentimenti per la ragazza viaggiano paralleli al riavvicinamento con l’universo-montagna, che è il vero protagonista di questo romanzo.
È sempre molto gradevole leggere una scrittura così ben calibrata e consapevole come quella di Cognetti, che sceglie di formattare i dialoghi senza segni grafici per spingere in modo più deciso verso la direzione della fluidità. Nonostante questo, però, non ho mai sentito l’impellente necessità di aprire il libro appena mi risultava possibile. Anzi: molte sere è rimasto chiuso. Così come molti libri scritti male che però riescono quantomeno a stimolare un po’ di curiosità, un romanzo scritto bene (nella forma) come La felicità del lupo dimostra quanto sia vero anche il contrario. La sensazione generale era quella di trovarsi all’interno di un mondo splendidamente descritto, ma che si lascia guardare solo da lontano.

Come è possibile non aver voglia di leggere un romanzo scritto molto bene? Le cause sono diverse. I personaggi rimangono sfuggenti, c’è chi li ha descritti bidimensionali e mi sembra esagerato anche se la profondità non è troppa. Il fatto che tendano tutti a parlare e a esprimersi in modo simile non aiuta a creare l’indispensabile empatia che – anche qui come in Sofia si veste sempre di nero – latita. La voglia assente di lettura può essere anche dovuta a uno scarso interesse verso i fatti raccontati, soprattutto le vicende di Fausto e Silvia sia quando sono assieme sia quando sono separati. La trama, inoltre, non prende mai una direzione precisa, si dipana per un anno attraverso le stagioni e a un certo punto termina lasciando in bocca un senso di incompiuto e di incompleto. E, dunque, di insoddisfazione.
Di contro, le descrizioni della montagna, delle sue sfumature, della sua gente e delle sue tradizioni sono meravigliose. Traspirano tutto lo sconfinato amore di Cognetti per questa dimensione, ma non sono sufficienti per considerare questo un buon libro.
Voto: 5/10
Mi dispiace davvero molto dover esprimere un voto negativo, ma terminare una lettura chiedendosi che senso abbia avuto non è una bella sensazione. E infatti mi chiedo se non sia il caso che Paolo Cognetti consideri l’idea di continuare a scrivere così bene della montagna abbandonando la misura del romanzo – che qui è troppo contorno – concentrandosi magari su un saggio o un libro di viaggio o autobiografico.
Cognetti scrive bene ma come giustamente dici questo non basta. Ho letto, molti anni fa, Sofia e in seguito Le otto montagne… poi ho abbandonato l’autore
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