L’abisso de Gli ultimi giorni di Marco Pantani

C’è un’immagine precisa che balena ogni volta che penso alla storia di Marco Pantani e in modo particolare al suo epilogo: è come galleggiare proprio al di sopra di un abisso oceanico e guardare giù con una maschera da sub, nelle sue terrificanti profondità, cercando di scorgere il fondale attraverso chilometri di acqua scura. Era da quindici anni che volevo leggere Gli ultimi giorni di Marco Pantani di Philippe Brunel e finalmente ci sono riuscito, ritrovandomi a bordo di un batiscafo che trasporta dritti verso i vertiginosi baratri dell’animo umano.

Trama de Gli ultimi giorni di Marco Pantani in un paragrafo – Il giornalista Philippe Brunel ricostruisce in modo dettagliato, crudo e diretto i drammatici giorni che hanno chiuso la tumultuosa vita del ciclista Marco Pantani, trovato morto all’interno di uno squallido residence a Rimini, nel 2004 ad appena 34 anni. Overdose o omicidio? Il cronista francese riporta le testimonianze di parenti, amici e sinistre figure che hanno accompagnato la vita del campione autore della storica doppietta Giro d’Italia e Tour de France nel 1998.

Rispondendo subito alla domanda che ho letto spesso in giro ovvero “Perché c’è voluto un giornalista francese per ricostruire in modo così preciso gli ultimi giorni della vita di Pantani?“, la risposta a mio parere è semplice: perché solo un cronista come Philippe Brunel – classe ’56, firma storica de L’Equipe e autore di numerosi bestseller non solo sportivi – avrebbe potuto trattare questa vicenda in modo professionale, estremamente diretto e, soprattutto, sincero. Brunel conosceva molto bene Pantani eppure non l’ha santificato come buona parte della stampa italiana: gli ha reso rispetto mostrandone i lati più dolorosi e angoscianti, unica via per comprendere il percorso e i motivi di un uomo diretto a tutta velocità verso una completa autodistruzione.

Leggere questo libro è molto doloroso, soprattutto se si è amato Pantani e si è seguito con apprensione la sua breve vita densa di oscurità e eventi tragici. Così come per L’Avversario, anche questa è una storia vera ma inverosimile, perché non si crederebbe mai a una narrazione di finzione su una singola persona che nasce con un così limpido talento, che sfiori per così tante volte una meritata affermazione e che ogni volta venga respinto da un infausto destino, salvo poi vivere uno e un solo anno di gloria suprema, prima di essere rispedito nei precipizi fino a raggiungere gli anfratti più tetri dell’umanità, morendo in solitudine e disgrazia. Se fosse una storia inventata sarebbe “troppo”, invece è successo davvero. Ed è successo per motivi precisi radicati non solo negli eventi più famosi occorsi a Pantani, qualcosa di più impalpabile e invisibile.

In questo libro traspare chiaramente il rapporto speciale che Philippe Brunel è riuscito a instaurare con Pantani negli anni, con il Pirata che non viene mai descritto come una vittima né come un campione etereo: è Marco, un uomo tormentato da sempre, che anche nelle foto in gioventù, citando Brunel:

È cupo, preoccupato e sfugge l’obbiettivo, distoglie lo sguardo come se temesse di guardare le cose in faccia. A dispetto del suo successo, rimane assillato dal presentimento di una disgrazia in arrivo. L’intuizione che la sua vita sarà breve.

Questa inquietante sensazione si manifesta da sempre e dilaga dopo il 1999, quando Pantani viene fermato alla vigilia del secondo successo consecutivo al Giro d’Italia per un livello di ematocrito sopra la norma. Un passaggio a vuoto che moltissimi colleghi hanno superato senza troppo penare, ma che per lui è stato l’inizio della fine. Si è scritto e riscritto che sia morto quel giorno, che la sua agonia sia iniziata quel 5 giugno per terminare un lustro più tardi: è indubbiamente vero, quanto è altrettanto innegabile come tutto il buio della vita di Pantani era preventivabile avrebbe preso il sopravvento prima o dopo.

Mi hanno chiesto di baciare la coppa, ma io non sono vero, scriveva Pantani a commento di una foto dove finge di poggiare le labbra sul trofeo del Giro d’Italia 1998

Quell'”io non sono vero” rimbomba così come tante frasi scritte da Pantani su fogli di qualsiasi tipo, su lenzuola, sui muri persino sul proprio passaporto con quel celebre e angosciante “Ma andate a vedere cos’è un ciclista e quanti uomini vanno in mezzo alla torrida tristezza per cercare di ritornare con quei sogni”. Ci sono tanti momenti in cui si vorrebbe staccarsi dalla pagina e abbracciare Marco e abbracciare ancora più forte l’indomabile mamma Tonina, che l’agonia la sta ancora vivendo, da 23 anni: sono loro i protagonisti di questa storia e di questa vita, è facile giudicare e cercare di sostituirsi a decisioni forse scellerate (come il TSO sempre evitato oppure l’ostinazione di cercare una verità che forse non si troverà mai), ma non si deve dimenticare quanto basti poco perché chiunque possa perdersi in una deriva sempre più opprimente e irrisolvibile. Marco e Tonina, anni interi e al contempo pochi istanti lontani anni luce oppure vicino a un solo passo:

Una notte, era autunno, doveva essere un po’ dopo l’una del mattino, lui l’aspettava, dietro la finestra, la fronte incollata al vetro. E mentre la guardava fissamente, le faceva una linguaccia. Lei non aveva preso quel gesto per un segno di mancanza di rispetto, ma come un rimpianto dell’infanzia, una parata derisoria ma commovente, di fronte ai colpi della vita così deludente

Una lettura più che consigliata, soprattutto per chi vuole scoprire chi fosse davvero Marco Pantani e per chi non ha paura di addentrarsi nelle notti più buie. Si rivolge anche agli appassionati di cronaca nera e giudiziaria, ma io ho più apprezzato la tanta umanità che traspare.

Voto: 9/10

Dopo la copertina ancora una piccola riflessione personale.

Perché Marco Pantani

Ho seguito 15 edizioni del Giro d’Italia, il primo è stato nel 2005 ovvero l’anno dopo la morte di Pantani, lavorando come autista e assistente del giornalista e scrittore Gian Luca Favetto (che poi pubblicherà Italia, provincia del Giro con Mondadori). Se sono diventato giornalista sportivo è per via di Marco Pantani, che con le sue imprese ha infiammato la mia passione per il ciclismo durante l’adolescenza e a tutt’oggi i battiti accelerano se solo ripenso all’incredibile impresa Giro-Tour del 1998, dopo una lotta estenuante alla sfortuna che lo aveva più volte affondato non appena era a un passo dalla gloria.

Ricordo perfettamente la sensazione di sgomento e incredulità l’anno seguente, quando tornato da scuola accesi la tv e scoprii che la maglia rosa era stata fermata. Ero ragazzino e all’epoca ero sicuro si trattasse di un qualche complotto o di un errore, era stato incastrato: sicuro al 100%. Certo, non c’è ancora chiarezza su quel controverso controllo ematico, tutti gli scenari sono aperti, in modo particolare con le sinistre rivelazioni apparse negli anni tra docu-film, inchieste e servizi televisivi (Le Iene, soprattutto) tra ipotesi fantascientifiche, l’ombra della malavita e delle scommesse e compagnia cantante.

Ma qualsiasi cosa sia successa quel giorno, che ancora tormenta la povera mamma Tonina quanto i misteri della morte a Rimini, c’è una verità inoppugnabile che ho appreso frequentando l’ambiente nel ciclismo, leggendo cronache e ottimi saggi come quello di Philippe Brunel e ricevendo conferme dai test retroattivi sui campioni raccolti all’epoca: Marco Pantani non è mai risultato positivo a un controllo in corsa, ma non era pulito.

Riporto alcuni stralci del libro:

Le cure (termine generico che includeva il doping, l’assunzione di vitamine, le flebo di glucosio ecc.) per Pantani appartenevano a un ambito privato. Pregnolato: «Era molto riservato su questo argomento e non ne parlava mai concretamente. Avevamo un codice, una mimica. Quando era in dubbio, accennava una smorfia, nel caso contrario sorrideva in modo esagerato, come un clown. La maggior parte delle volte, non rispondeva niente»

o ancora:

“Penso che alla fine si arrangiasse da solo» suppone Davide Cassani, secondo il quale più nessuno venne autorizzato a entrare nella sua stanza a partire dal 1997. Là come altrove, si ingegnava a confondere le piste e diffidava dei preparatori, per metà medici, per metà guru, che tengono i corridori sotto una forte dipendenza medica per scopi commerciali.
«In confronto a questa gente» mi aveva confidato, «io sono solo un semplice artigiano.» Prima confessione, appena velata, di una pratica del doping, seguita da questa risposta secca nel corso di una conversazione informale a Benevento, durante il Giro d’Italia del 2003, di fronte a un gruppetto di giornalisti. «Ma che cosa credete? Non sono diverso dagli altri. Quando una cosa è permessa, è difficile restare lo stupido della situazione…

Eppure. Perché Marco Pantani, perché?

Non si può spiegare, è l’unico corridore non più in vita ancora protagonista di numerosi cartelloni e scritte sull’asfalto al passaggio del Giro, ha ispirato una generazione di corridori. Ispirazione, ma non esempio da seguire, sia chiaro. Ma anche dopo tutta questa oscurità opprimente che circonda una ripida discesa verso l’annichilimento totale di sé, la figura di Marco Pantani rimane presente, un piccolo fuoco tiepido e tremante, da proteggere a tutti i costi.

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