Recensione Autunno tedesco di Stig Dagerman

La scrittura di un reportage è una delle arti più difficili del mondo del giornalismo perché può capitare che l’autore cada nella vanità di porsi in primo piano rispetto a ciò che dovrebbe invece raccontare: qualcosa che accade di frequente anche negli articoli tradizionali e nelle interviste, ma che nell’ambito di una cronaca di viaggio o, peggio, di una situazione bellica risulta ancor più aberrante.

Non è il caso dell’encomiabile lavoro svolto dallo scrittore svedese Stig Dagerman a seguito del viaggio nelle rovine della Germania dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, dal 15 ottobre al 10 dicembre 1946. Pubblicato a puntate dal dicembre del ’46 al successivo aprile ’47 sul quotidiano Expressen, diventò poi il volume unificato col titolo Tysk höst ovvero Autunno tedesco poco dopo, a maggio. Ho letto la traduzione italiana a opera di Massimo Ciavarolo pubblicata dalla casa editrice Lindau.

Berlino ha i suoi campanili amputati e le sue file interminabili di edifici governativi distrutti, i cui colonnati prussiani abbattuti riposano il loro profilo greco sui marciapiedi

Trama Autunno Tedesco in un paragrafetto – Il giovane e emergente Stig Dagerman viene inviato in Germania a raccontare la situazione post-bellica e visita numerose e importanti città come Amburgo, Berlino, Hannover, Dusseldorf, Essen, Colonia, Francoforte, Heidelberg, Stoccarda, Monaco di Baviera, Norimberga e Darmstadt, incontrando gente comune e meno comune.

Perché è stato scelto proprio Stig Dagerman e non un reporter professionista? Come riportato nell’interessante appendice di Fulvio Ferrari, l’allora caporedattore di Expressen, Carl Adam Nycop spiegò che “I soliti corrispondenti accreditati erano del tutto dipendenti dalla collaborazione con le potenze di occupazione e questo rappresentava un peso che impediva la libertà dei giornalisti. Uno scrittore sconosciuto che andava a fare la visita ai parenti della moglie era qualcos’altro. Avevamo la sensazione che avremmo potuto ricavare materiale di tipo completamente diverso“.

Sarebbe stato difficile scegliere qualcuno meglio di Dagerman, classe 1923, cresciuto dai nonni e poi dal padre anarco-sindacalista oltre che profondamente anti-nazista, poi sposato in prime nozze con la tedesca Annemarie Götze di famiglia anarchica esule in Svezia i cui genitori avevano peraltro combattuto volontari contro Franco durante la Rivoluzione Spagnola. Questa commistione tra lo spirito anti-nazista e anarchico e l’esperienza diretta con una famiglia tedesca rifugiata ha permesso a Dagerman di concentrarsi sul racconto della popolazione lasciata a vivere tra gli stenti nelle macerie, un viaggio nella comprensione delle cause della tragedia, senza preconcetti o pleonastici tentativi di assoluzioni.

I boschi sono i primi e i più veloci a leccarsi le ferite.

La scrittura di Dagerman è precisa, descrive in modo diretto e pulito l’orrore e la devastazione. Non cade nell’insostenibile e inutile tono drammatico di molti articoli di guerra che si possono leggere su giornali passati e presenti, non sceglie casi umani da dare in pasto alle varie interpretazioni. Cerca piuttosto di raccontare i fatti come sono, per comprendere meglio cosa è successo soltanto pochi anni prima. Soprattutto, l’autore rimane dove deve stare ossia sullo sfondo: ricostruiamo il mondo attraverso le sue parole, non è un video-selfie con il racconto che spunta dietro le spalle (colleghi giornalisti e scrittori, ricordatevelo, dannazione!).

Una lettura più che consigliabile, che scivola via in un pomeriggio e che non si rivolge soltanto agli appassionati di storia. Vale la pena sottolineare come l’autore avesse soltanto 23 anni al momento del viaggio e della scrittura di questo reportage, davvero una maturità e un occhio notevoli.

Voto: 8/10

Dopo la foto della copertina, un ultimo punto.

Stig Dagerman

Di solito leggo qualcosa sulla vita dell’autore dopo aver terminato il romanzo. In questo caso non nascondo di aver provato un po’ di tristezza nello scoprire che Dagerman si sia tolto la vita ad appena 31 anni. Come molti talentuosi artisti scomparsi da giovani, anche sulla figura di Dagerman si è creata una sorta di atmosfera mitologica, soprattutto in patria. La sua breve avventura su questo pianeta è stata intensa e molto tormentata ed è doloroso leggere come una serie di rifiuti di pubblicazione abbiano contribuito a spingerlo nell’abisso.

È logico e al contempo inutile chiedersi quali opere avrebbe ancora potuto scrivere se avesse avuto più tempo, perché paradossalmente quello sguardo così particolare e quella sensibilità devono molto al buio degli anni più difficili. Proprio quelli che lo hanno portato troppo velocemente alla fine. Mi vengono in mente le prime abnormi stelle create poco dopo il big bang con pressoché soltanto idrogeno ed elio: burn fast, die young; brucia veloce, muori giovane. Un dono e al contempo anche una condanna, dai quali è molto difficile fuggire.

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